I can’t find the words to say…

Nel tour bus non tirava una bella aria. Matt si accaniva contro una vecchia pianola, insoddisfatto di come Mozart suonasse cacofonico attraverso quel giocattolo. Dom creava jam con gli ossi del pollo appena mangiato. Chris stava fumando vicino alla finestra ed Erin… Erin era seduta davanti al foglio, una sola pagina rimasta bianca e mille piene di scarabocchi, mezze parole e imprecazioni, tutti accartocciati e lanciati nel bus.

Quando ne riaprì una e, disgustata dal suo contenuto la gettò via, colpì il muso di Morgan, appena entrato nel bus.

«Ohi!» protestò l’uomo, in attesa di scuse.

Erin, assente, stava ripescando un altro foglio usato dalla pila degli scarti; non si sarebbe distratta neppure se degli operai avessero iniziato a smontare il bus attorno a lei.

Era in quella fase tanto temuta che solitamente è conosciuta come “Blocco dello scrittore”, ma che gli scrittori, in generale, chiamano incubo. La prima fase è una totale dissociazione da ciò che si scrive, o si è scritto; secondariamente vi è stupore per tutto quell’odio covato verso le proprie creazioni; al terzo posto arrivavano lievi le paranoie, del tipo “ma come mai non scrivo più così bene, avrò perso il mio dono, devo ritrovare la mia pace interiore, forse mi stanno arrivando le mie cose… (di solito riferito solo alle scrittrici)” ETC.

Dopo il quarto passo, ossia disperati tentativi di dimostrare a se stessi che si è ancora in grado di scrivere, mediante una produzione massiva e di basso livello, le paranoie diventano più forti; l’artista però le mette a zittire, negando al proprio ego di non essere momentaneamente in grado di saper mettere giù due sole righe che si possano definire decenti.

I periodi paiono lunghi, bisognerebbe tenersi a portata di mano una bombola d’ossigeno per leggere certe frasi… oppure gli enunciati risultano corti, così essenziali da non avere ne capo ne coda: solo un disgustosissimo pancreas intermedio, privo di significato.

Erin sapeva che sarebbe diventata pazza nel giro di poche ore, se non avesse buttato giù qualcosa, qualsiasi cosa che fosse degna di una sufficienza. Eppure sapeva anche di non poter andare altrove senza purtroppo continuare sentire il Confutatis che si miscelava amaramente ad una intro fatta con le costole di un pollo.

Era stata una pessima idea insistere così tanto per andare in Giappone; amava quella terra, la venerava per le sue tradizioni, per le anime, per i Pokemon e così era da quanto era stata una marmocchia che imitava le mosse dei cartoni animati. Però non sarebbe mai dovuta andare così oltre: essere la ragazza di Matthew Bellamy aveva i suoi svantaggi, lì nel paese del Sol Levante, soprattutto se ci si trovava in tour con la band.

In primis, il fatto di dover dividere il bus con altri cinque uomini nelle ore diurne, era insopportabile.

Aveva imparato a conoscere lati di Morgan dei quali avrebbe preferito continuare ad ignorare l’esistenza, come la sua ossessione per i locali notturni: “Ragazzi, avete trent’anni, non sessanta! Suvvia ragazzi, non siete mica monaci di clausura!”. In genere, dopo queste proclamazioni, Morgan riceveva l’occhiataccia più bieca e minacciosa che Erin aveva in repertorio, a ricordargli che non era molto gentile da parte sua mandare Matt a caccia; figuratevi poi la faccia che Matt doveva esporre (gli dispiaceva infatti di non potersi divertire con i suoi amici, benché avesse più volte rassicurato Erin riguardo le sue intenzioni di fidanzato modello).

Quanto poi erano in giro, ogni situazione diventata delirio puro: da ogni buco, tombino, o angolo di Osaka sbucavano fuori fan incalliti, disposti a tutto pur di avere una foto o un autografo del trio; fin qui niente di anomalo, sennonché le ragazze iniziavano a prendere Matthew a braccetto, spintonandola via. Matt le ripeteva di non essere gelosa, ma tutto ciò era troppo, per Erin. Nel backstage di un concerto, dopo un attacco a sorpresa da parte di una mandria di occhi a mandorla alquanto ammiccanti e da gatta morta, la security aveva prima allontanato e poi sbattuto fuori dal palazzetto anche Erin, rimasta coinvolta nella bolgia, nonostante lei avesse al collo un pass con soscritto in grassetto “Bellamy”; aveva dovuto chiamare Tom per farsi recuperare prima dell’inizio del concerto.

All’ultimo posto delle “tre peggiori cose che capitano se sei in tour con il tuo ragazzo” stavano loro, le groupies.

Maniacali, senza ritegno, talvolta impacciate, pedinavano Dom, Matt e Chris senza freno, riuscendo persino a bussare alla porta del tour bus. L’ultima ragazza che aveva spalancato la porta e si era tuffata su Bells, si era beccata le cinque incazzatissime dita di Erin sulla guancia.

Tutta questa serie di motivi dovuti al fatto di trovarsi in tour con i ragazzi, aveva provocato ad Erin un blocco.

«Vado a prendere un po’ d’aria» annunciò tutto d’un tratto, destando lo stupore generale.

«Tesoro, va tutto bene?» le chiese Matt. Erin annuì e agguantato il chiodo di pelle che aveva sin dai tempi del liceo, uscì.

Sapeva benissimo che un banale giro nell’area camper non sarebbe bastato a calmarla, quindi puntò direttamente all’uscita del parking, pensando a cosa fare.

Il tempo stava diventando nuvoloso, oppure il cielo era davvero malato come sembrava. Con la mente Erin riacchiappò i paesaggi che teneva scolpiti in memoria sin da quando aveva letto Seta per la prima volta: aveva davvero apprezzato quel libro, benché l’avesse sfogliato nell’adolescenza. Si disse che era stupida: già a tredici anni aveva capito di non sentire le emozioni come fanno tutti, di essere destinata a comprendere il mondo su una frequenza radio completamente differente da quella usata dal resto del mondo. Aveva scoperto di essere un’artista e lo aveva accettato solo sui vent’anni, quando aveva pubblicato il suo primo lavoro. Ora, da sola in un Paese che era totalmente diverso da come l’aveva immaginato, si sentì stupida; si era fatta un film sul Giappone senza neanche mettere in conto la possibilità che aveva perfezionato troppo la realtà con i propri pensieri, nonostante quella fosse la prima lezione che si era auto impartita fin da piccola. L’artista che immagina, sogna, che crea, in piccolo angolo di cervello deve sempre tenere presente che il mondo non è l’utopia immaginata.

Il mondo non è la mia utopia, eppure mi sono sempre illusa che…

«Erin!» le gridò Chris, raggiungendola di corsa.

La ragazza sbuffò; non sapeva che voleva, né erano più rimasti soli da quasi un anno; però, a miglia da casa, Erin aveva abbassato la guardia e Chris l’aveva raggiunta, penetrando la fortezza che la ragazza aveva creato.

« Wolstenhome, che ci fai qui?»

«Non sta bene che te ne vada tutta sola in giro per Osaka. Può essere pericoloso!»

«Non capisco perché sia venuto tu piuttosto che-» Chris l’interruppe «Matt si sentiva ispirato e si è fiondato sulla Manson».

Erin alzò gli occhi al cielo: almeno lui riusciva creare, dopotutto. Con addosso un lieve accenno d’invidia e la voglia di ritrovare l’ispirazione, Erin soppesò l’idea di esplorare la città con Christopher; cosa sarebbe potuto succedere di male?

«Bè, dove si va?» le domandò Chris, allegro e petulante come un bambino.

«Non so, non sono mai stata ad Osaka prima d’ora… potremmo cercare qualche negozio interessante, prendere un caffè» qualsiasi cosa, purché mi aiuti.

Chris le lanciò uno sguardo sornione, affermando di avere l’idea giusta. Con passo vivace, i due si avviarono verso la stazione della metro più vicina. Chris reggeva tra le labbra una sigaretta e Erin esaminò l’opportunità di provarne una, la prima della sua vita. Ma no, l’aveva promesso a se stessa che mai e poi mai avrebbe affumicato i propri polmoni in modo attivo. Però quella cartina sembrava dare a Chris tutto ciò di cui aveva bisogno: la calma, la serenità, il coraggio di guardarla negli occhi dopo quella sera…

«Christopher» lo chiamò mentre salivano su un diretto per il centro.

«Uhm?»fece lui, ormai senza più la sigaretta, ma solo con lieve olezzo fumogeno attorno.

«Grazie per essere qui» gli disse, sorridendogli. Si sentiva male per come lo aveva ripudiato e bistrattato nell’ultimo periodo, voleva vedere se una vaga amicizia fosse ancora recuperabile. Tra un accenno di barba sbucò un sorriso, la bocca di Chris contrita nella mezzaluna più sincera che Erin avesse mai osservato.

Arrivarono nel centro attivo di Osaka, ma scelsero l’area più pulsante e giovanile, piena di luci e colori anche in pieno giorno. Lì tradizioni antiche e le ultime tendenze si mescolavano con sapienza e tentavano chiunque passasse di lì.

Erin non resistette all’idea di farsi acconciare i capelli come una geisha; scelse una crocchia soffice e con un fiore tra le ciocche. L’acconciatrice chiese se il signore con lei volesse qualcosa ed Erin rispose di sì.

«Oh, avanti, non so se è il caso…»

«Dai Wolstenholme, hai avuto i capelli rosa! Potrai fartelo uno shampoo, no?».

Così Chris si accomodò in poltrona, non sapendo cosa lo attendeva alla fine di quella seduta.

Erin intanto gettò lo sguardo ai negozi oltre la vetrina: in mezzo a tutti quei simboli contorti, riuscì a distinguere un laboratorio di tatuaggi.

«Jesus Christ…» boccheggiò Chris, vedendosi allo specchio: i suoi capelli erano come la chioma di un porcospino, solamente molto, molto soffice. A Erin ricordò vagamente il taglio di capelli che avevano le statuine dei troll, quei piccoli esserini dai capelli sgargianti. Aspettò qualche minuto, il tempo che Chris pagasse l’acconciatrice e uscissero dal locale, prima di scoppiargli a ridere in faccia.

«Non hai un briciolo si autocontrollo, Erin!» la rimproverò Chris, falsamente irritato. E mentre rideva, Erin capì cos’era che le bloccava la vena artistica: in cuor suo aveva rinnegato tutto, ma la realtà era che Chris le era mancato. Non osava pensare perché, ma sapeva che era stato il loro allontanamento a creare la sua crisi artistica. Dopotutto si stava bene così, senza che lei tentasse di scoprire le cause che l’avevano indotta ad entrare in crisi d’astinenza da Chris; era pace, quel mondo era utopia.

Quando Dom chiamò Erin sul cellulare per ricordargli di tornare al bus, la ragazza era impaziente di riempire un’intera crisma di fogli con le proprie emozioni.

 

~ di plugineve su 21 gennaio 2010.

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